Metastasio (1983)

Metastasio, introduzione al Convegno «Metastasio» promosso e organizzato dall’Accademia nazionale dei Lincei (Roma, 25-27 maggio 1983), d’intesa con Arcadia-Accademia letteraria italiana, Istituto di studi romani e Società italiana di studi sul sec. XVIII. Atti pubblicati dall’Accademia nazionale dei Lincei, Roma, 1985.

INTRODUZIONE AL CONVEGNO

Oggi e (in verità) per alcuni studiosi da quasi un trentennio – a segnare subito l’attuale accettazione dell’opera metastasiana e del suo vero e serio valore – nessun critico o studioso sentirebbe il bisogno di giustificare non solo un proprio interesse per Metastasio, ma addirittura il proprio eventuale esordio di lavoro con un libro su questo scrittore, come invece accadde al mio maestro, Luigi Russo, quando, dopo la ristampa, nel ’45, del suo giovanile, iniziale libro sul Metastasio (del ’15: era la sua tesi pisana del ’14), ritenne, nel ’46, nella premessa alla ristampa di un altro libro, Vita e disciplina militare, di dover dichiarare la propria trepidazione per la sua scelta iniziale di un autore «alienissimo dal proprio temperamento» e il suo timore di una propria «origine arcadica». Allora io, pur ben comprendendo sia tante ragioni inerenti alla piú vera congenialità di Russo con ben diversi autori ed epoche, ed anche una forma di ironia in quella giustificazione, la considerai anche come un segno di tempi, in cui una nuova discussione sulla stessa qualifica di Metastasio come «poeta» era ancor lungi dal risolversi definitivamente in maniera convincente e positiva.

Ciò che avvenne (e certo con l’appoggio di importanti stimoli critici anche primo-novecenteschi: del Russo appunto e – anche se spesso non senza incertezze e incomprensioni della dimensione teatrale metastasiana – del Momigliano, del Flora, del Sapegno, per non parlare qui di piú lontane ed altre fortune critiche del Metastasio) solo negli anni ’50-’60, in discussione con la drastica svalutazione del Croce (egli aveva al massimo recuperato dell’opera melodrammatica metastasiana rari momenti piú commossi e delicati, rare immagini poetiche, piccole «scintille», dell’amore e del dolore, che però «paiono quasi venuti fuori per caso») ed anche con il giudizio tanto piú ampio e ricco di spunti acutissimi (e assai tormentati nelle sue varie versioni e riprese fino all’introduzione ricciardiana del ’68), ma sostanzialmente troppo riduttivo del Fubini, pur grande studioso e rivalutatore della stessa zona arcadica.

Quella definitiva base di una piú decisa ed equa valutazione del Metastasio poeta (e poeta teatrale), autore dotato di un’articolata raggiera di registri scrittorii sino alla singolare prosa dell’epistolario, della sua collocazione e importanza storico-letteraria (a parte la sollecitante esplicitazione nel ’54 di un sintomatico recupero di Metastasio da parte di Riccardo Bacchelli, che da una casuale lettura dei melodrammi durante il periodo dell’occupazione tedesca era stato indotto a passare, da una consunta immagine sfiduciata di Metastasio, ad un vivo senso di ammirazione per quel «cerchio limitato, ma perfetto», di poesia, per la «melodia metastasiana che gli vien dalla natura e non soltanto dall’arte, che è poetica e non solo melodrammatica»; Bacchelli curò poi, nel ’62, un’antologia metastasiana), venne stabilita, fra il ’50-51, entro prospettive critiche chiaramente non crociane, quali erano, pur con le loro differenze, quelle da tempo sviluppate su altri autori e altre zone letterarie da Claudio Varese e da me.

Anzitutto da Varese, il cui libro sul Metastasio, del ’50 (a cui sempre mi sono riconosciuto debitore di forti stimoli intrecciati al mio lavoro metastasiano) rappresenta certamente un momento essenziale di apertura della nuova critica metastasiana, nel suo fine e sin congeniale accostamento critico al Metastasio, di cui quel libro consolida la chiara natura e dimensione teatrale, individuando, con grande acutezza, il rapporto fra trama e tessuto lirico del melodramma, la posizione del teorico e del regista della propria opera, aprendo cosí una via di ricerca molto fruttuosa, sulla quale lo stesso Varese si trova ancora ben attivo fino ad un recente intervento al Convegno di Cagliari sulla consistenza e le direzioni della prosa metastasiana che ho potuto leggere, ancora inedito, con grande interesse.

Quanto a me, il mio contributo ad una possibilità di migliore comprensione (proprio al culmine di una ricostruzione storico-critica dell’epoca arcadico-razionalistica) della personalità storica e poetica del Metastasio, della sua Weltanschauung, della sua poetica nelle sue direzioni intenzionali e nelle sue effettive realizzazioni entro lo sviluppo della sua opera, risale ad un corso (e relative dispense) tenuto a Genova nel ’51-’52 sull’Arcadia e sul Metastasio, alla fine del quale volli far provare (a piú sicura dimostrazione dell’intrinseca qualità poetico-teatrale di Metastasio di fronte a un pubblico di studenti, che, malgrado il mio corso, potevano mantenere su quello scrittore teatrale una certa ironica sfiducia, allora assai diffusa) una recitazione senza musica, senza scenografia, senza costumi dell’Olimpiade, realizzata da attori professionisti e attori dilettanti (erano studenti) preparati da un mio ex-allievo, critico teatrale ed esperto di problemi di regia. La prova riuscí, al di là della mia stessa aspettativa, nettamente convincente e io stesso ne ho ancora un ricordo ben vivo.

Sulla base di quel corso (e poi di idee svolte in una relazione sul Settecento letterario italiano ad un convegno, a Magonza, nel ’62, convegno nel quale discussi anche una relazione del compianto Paul Renucci volta ad una accentuazione, a mio avviso eccessiva, dell’elemento eroico metastasiano) scrissi poi il lungo capitolo (in realtà una monografia) sul Metastasio nel mio volume del ’63, L’Arcadia e il Metastasio.

Nel periodo successivo soprattutto si amplia e si approfondisce (con nuove conseguenti possibilità ed ulteriore comprensione della posizione del Metastasio) lo studio e l’interpretazione dell’epoca arcadico-razionalistica (e dei suoi rapporti con l’aprirsi dell’età dell’illuminismo) sia nei suoi aspetti letterari, ideologici, culturali, sociali e politici e nelle sue varie direzioni di riforma, sia nella nuova precisazione del vero spessore di molti dei suoi maggiori rappresentanti (come Gravina, Muratori, Conti) in un piú attivo incontro di studiosi della letteratura, di storia civile e culturale, di studiosi di filosofia, di studiosi di musica e di teatro, entro un nuovo moto interdisciplinare in crescente espansione. Mentre, per quanto riguarda piú direttamente il Metastasio, i contributi non sono stati tanto numerosi, quanto, a volte, assai centrali: quali ritengo anzitutto il saggio di Ezio Raimondi del ’67, Ragione e sentimento nel Metastasio, che precisa il rapporto fra l’interpretazione dei sentimenti in Metastasio e il trattato cartesiano Des passions de l’âme e sviluppa il tema fecondo della dialettica realtà-sogno, vero-falso, vita-teatro, sempre piú centrando l’importanza centrale del celebre sonetto Sogni e favole io fingo. Al quale sonetto si riferisce un breve saggio di Cesare Galimberti (del ’69) tutto puntato sulla interpretazione della visione esistenziale e del testo del Metastasio come «finzione» (il «fingo» appunto del sonetto), mentre già nel ’64 un volume di Franco Gavazzeni, Studi metastasiani, portava un nuovo contributo (soprattutto sul versante letterario, particolarmente su quello stilistico-linguistico) allo studio della formazione del linguaggio del Metastasio e della sua produzione giovanile. Né va dimenticato il fatto che in questo ultimo periodo l’opera metastasiana è stata utilmente rilanciata in varie edizioni antologiche con relativi saggi introduttivi (quella rizzoliana curata da Elena Sala Di Felice del ’65, quella ricciardiana del ’68 – con una introduzione di Fubini già ricordata, e una musicologica di Luigi Ronga di particolare finezza ed acume, da lui già ben dimostrati in vari studi sull’epoca musicale cui Metastasio appartiene –, quella, pure del ’68, dell’UTET curata da Franco Gavazzeni), e che l’importanza di Metastasio è stata piú adeguatamente rilevata in varie storie letterarie di grandi case editrici (quella dell’editore Garzanti con il lungo capitolo metastasiano – nel mio Settecento letterario del ’68 – che riprende e rafforza le mie precedenti posizioni, quella dell’editore Laterza con il capitolo metastasiano del Nicastro). Sicché la figura e l’opera del Metastasio appare ormai sempre piú saldamente affermata e sottratta comunque alla zona dei «minori» in cui precedentemente aveva, a volte, finito per discendere.

Negli studi piú recenti si è venuta anche prospettando una linea di interpretazione non certo slegata da tanti precedenti della critica metastasiana, ma certo piú profilata in un’angolatura di tipo drammaturgico-ideologico: da una parte, il massiccio e molto particolareggiato volume di Jacques Joly, Les fêtes théâtrales de Metastase à la cour de Vienne, del 1978, che, nello studio di queste feste teatrali (ma certo nella prospettiva di tutta l’opera teatrale metastasiana) persegue la linea di una «decrittazione» ideologica della drammaturgia dell’«intellettuale» Metastasio, dall’altra i sempre piú numerosi saggi metastasiani di Elena Sala Di Felice (saggi in parte legati ai convegni di questo bicentenario e ora culminati in un volume complessivo sul Metastasio uscito proprio in questi giorni) in una direzione di individuazione dell’ideologia che sorregge la drammaturgia metastasiana in una forma di collaborazione con il potere (soprattutto quello degli Asburgo) che dentro una creazione del consenso rivelerebbe un impegno «politico» storico-personale, mentre su tale base vengono indagate le molteplici forme di costruzione drammatica nei rapporti fra parola, scena, musica nel complesso di tutti gli elementi della rappresentazione.

Ma con questi ultimi lavori ricordati (e con altri fra i quali desidero almeno ricordare quelli di Giorgio Santangelo sull’Olimpiade e sulla modernità del Metastasio) siamo ormai entrati nella zona approssimata al bicentenario e con questo coincidente (e con i convegni ad esso legati): zona folta di contributi e interventi specie nella collaborazione, cosí importante per Metastasio, della critica musicale e della critica teatrale-letteraria e degli studi sul linguaggio melodrammatico: collaborazione per altro già avviata nel ’73-’75 nei convegni su «Venezia e il melodramma nel Settecento» dell’Istituto di Lettere Musica e Teatro della Fondazione Cini, nel cui primo volume degli «Atti» con premessa di Gianfranco Folena (1978) sono contenuti importanti contributi di studiosi italiani e stranieri sul melodramma metastasiano, sul suo linguaggio, sui suoi rapporti con la musica e i musicisti.

I convegni del bicentenario sono stati numerosi in Italia, in Europa e fuori d’Europa e ad essi hanno partecipato vari studiosi che ora sono presenti nel nostro convegno. Non occorrerà certo usare toni trionfalistici per la risonanza di questo bicentenario metastasiano, ma ci si dovrà pure rallegrare della promozione di questi convegni e quindi di tanti nuovi studi spesso di alto livello, mentre anche quanto ad accoglienza giornalistica (parlo almeno dell’Italia) si può osservare che essa è stata se non larghissima, certo non scarsa e soprattutto concorde in una valutazione positiva di Metastasio e del tutto priva, per quanto mi consta, di quelle «dissacrazioni» assai fastidiose, per non dir peggio, che – accanto ad un articolo di ben altro carattere – furono diffuse da vari periodici sul grande Foscolo nel ’78, in occasione del bicentenario della sua nascita.

Cosí come assai calorosa accoglienza di stampa ha avuto, proprio nell’anno del bicentenario, la rappresentazione senza musica dell’Olimpiade ad opera di Sandro Sequi (regista già affiatato con Metastasio in due precedenti simili rappresentazioni).

Siamo cosí giunti a dar qualche breve cenno sul nostro convegno. Attraverso una gestazione assai laboriosa (intrecciata qui a Roma con l’iniziativa del monumentale convegno su «Roma e il teatro nel Settecento» – per il 150° anniversario della fondazione del Teatro Argentina – in cui furon tenute anche due relazioni metastasiane: una di Pirrotta, l’altra della Sala Di Felice, mentre l’Istituto austriaco di Cultura tenne una tavola rotonda su Metastasio e l’Austria, cui intervenne, fra gli altri, Paolo Alatri), il nostro convegno è nato dalla collaborazione dell’Accademia dei Lincei, della Società di studi sul secolo XVIII, dell’Arcadia e dell’Istituto di Studi romani: e sottolineo la partecipazione attiva di questo istituto «romano» perché Metastasio è pure uno dei due maggiori poeti dell’epoca moderna nati a Roma (l’altro è ovviamente il Belli) e per molto tempo l’unico di fama nazionale e internazionale. Sicché (mentre il Ministero dei Beni Culturali ha promosso una Mostra di edizioni e cimeli metastasiani che è inserita nel programma del nostro Convegno, avremmo pur gradito una collaborazione degli Enti locali e laziali (in accordo col Ministero del Turismo e Spettacolo), soprattutto per realizzare una rappresentazione senza musica o addirittura una semplice lettura teatrale di un’opera metastasiana, in utilissimo appoggio al nostro Convegno.

Comunque, al di là di questo Convegno, mi permetterei di esprimere la proposta (che penso gradita agli altri componenti del comitato del convegno) di una collaborazione fra gli Enti locali romani e il Ministero dei Beni Culturali per la creazione di un Centro nazionale di studi metastasiani in Roma, con il compito di promuovere e realizzare anzitutto un’edizione critica delle opere metastasiane di cui ormai si sente, a mio avviso, il bisogno, al di là della meritoria edizione mondadoriana del Brunelli: edizione critica delle stesse opere teatrali, munita di piú largo apparato, e soprattutto l’edizione critica dell’epistolario (il testo del Brunelli suscita varie perplessità anche per il mancato o dubbio rapporto fra il testo degli originali delle lettere e il testo del copialettere metastasiano, e inoltre una nuova edizione dell’epistolario – a parte acquisizioni successive di lettere metastasiane come quelle edite dal Fucilla – potrebbe raccogliere utilmente le lettere dei corrispondenti); e poi una bibliografia delle edizioni (particolarmente utile quella dei singoli «libretti» nei loro spesso interessanti e significativi aggiustamenti per l’esecuzione musicale) e della critica e fortuna metastasiana. Per non dire della possibilità di promuovere studi, convegni, rappresentazioni metastasiane.

Quanto alla consistenza del nostro convegno cosí come attualmente si presenta si dovrà dire che esso, pure ridotto rispetto alla sua iniziale progettazione a causa della indisponibilità di vari studiosi interpellati e successivamente da alcune assenze impreviste (una, purtroppo, per la morte di un relatore, G.C. Rossi, che avrebbe dovuto parlare degli importanti rapporti fra Metastasio e i paesi iberici), registra presenze ben valide italiane e straniere e si articola in adeguate sezioni (anche se, ripeto, ridotte rispetto al programma progettato); una storica e ideologica (Alatri, Giarrizzo, Wandruszka), una musicologica (Pirrotta e Gallarati), una teatrale-letteraria (Sala Di Felice, Quondam, Muresu, Santangelo, Varese, Ferroni, Joly, Della Corte), una dedicata ai rapporti fra Metastasio e nazioni e letterature straniere (Sozzi e Potapova), infine la relazione di Macchioni Jodi, Metastasio, Assisi e l’Arcadia umbra, legata alle origini assisiati del poeta e che in realtà si pensava collocata in una giornata del convegno ad Assisi, poi soppressa per la caduta di possibilità organizzative inizialmente prospettate.

Qui terminerebbe la mia introduzione ai lavori del Convegno. Ma, seppure in mancanza di una vera e propria prolusione, ritengo almeno (soprattutto nella mia qualità di ormai vecchio studioso di Metastasio) di riproporre qui (in una forma di breve e provvisorio abbozzo di un possibile piú ampio e circostanziato discorso e in attesa, come spero, di riprendere ancora una volta il lavoro su di un autore a cui ancora continuo a pensare con una attrazione non esclusa da quella che piú fortemente mi lega ad altri e piú grandi scrittori) un punto centrale già emerso nella mia interpretazione monografica di Metastasio e cui ripenso ancora come perno di un possibile attrito fecondo del mio lavoro con gli studi piú recenti fino a quelli che gli Atti dei convegni del Bicentenario presto renderanno pubblici.

Come quel punto centrale (ma non perciò isolato da tutta una ricostruzione storico-critica che tanto piú ora nuovi studi metastasiani sollecitano con molti nuovi stimoli ed offerte) già nel mio lavoro metastasiano precedente trovò sostegno anche nella individuazione di alcuni essenziali e sintomatici anelli della fortuna e soprattutto della forza di suggerimento e di penetrazione della poesia metastasiana nella grande zona culturale e poetica fra secondo Settecento e primo Ottocento, cosí esso e le posizioni che lo motivano cercherebbero ancora una ulteriore forma, piú che di un assoluto avallo, di forte stimolo (anche se storicamente calcolato) anzitutto nel Rousseau e nel Leopardi, sulle cui forme di entusiasmo per Metastasio (della penetrazione metastasiana nel primo, o di attrazione e usufruizione della poesia metastasiana nel secondo) andrebbe operato un rinnovato e piú attento scandaglio.

Basti qui dire che sempre piú emerge per me il grande valore (pur entro, ripeto, le particolari condizioni storiche e personali e le poetiche di quegli scrittori) della convergenza su Metastasio e sulla sua poesia dell’autore della Nouvelle Héloïse e del poeta dei Canti. Il primo – secondo l’espressione di una lettera del Deleyre (14 luglio 1759) allo stesso Rousseau dopo una visita al Metastasio – davvero ricavava dall’assidua lettura del «divino» Metastasio essenziali stimoli alle proprie opere, e, certo, soprattutto nella direzione del «cuore» del quale per lui Metastasio era comunque il vero poeta, sicché solo Metastasio, secondo sue note affermazioni, poteva sollecitare l’entusiasmo creativo e sostenere l’accordo, nel cuore, fra amore e virtú, cosí essenziali specie nella dirompente prospettiva sentimentale del suo fondamentale romanzo epistolare, notoriamente costellato di citazioni di versi metastasiani attorno alle situazioni piú tipiche del «maître des âmes sensibles» e animato dalla irradiazione generale dei sentimenti e degli affetti del «cuore». Mentre il Leopardi (a parte il rifiuto precoce della componente tragico-eroica del Metastasio viceversa ben usufruita nella sua primissima produzione) non solo apprezzò altamente (anche se con una punta di esitazione finale) il Metastasio nel celebre e tanto discusso giudizio dello Zibaldone del ’19, valido, a mio avviso, comunque per l’affermazione leopardiana del Metastasio come «poeta di sentimenti e di affetti»; ma (se Metastasio può venire indirettamente coinvolto nel discorso zibaldonesco del ’23 sui drammi a lieto fine incapaci di vero effetto poetico perché lasciano l’animo in calma e riposo e non invece, come fa la vera poesia, in agitazione e movimento) non pare azzardato sottolineare il fatto che il Metastasio, poeta degli affetti, delle alterazioni e modificazioni del cuore, delle forze emotive (quale si può cogliere dall’interno dello sviluppo di affetti patetico-drammatici prima della risoluzione del lieto fine) poteva pur, in certo grado, corrispondere ad aspetti della stessa definizione leopardiana della poesia (appunto nello Zibaldone del ’23, fra il discorso citato e quello sulla poesia epica e sull’Iliade), come forza capace di provocare movimento di sentimenti, di «commuovere cosí o cosí, ma sempre commuovere».

Sí che – a parte l’interesse tuttora di uno studio capillare ed organico sul vero significato delle «fonti» e stimoli metastasiani di ritmi, toni, parole e persino accordi linguistico-tematici (come sul rapporto piacere-dolore, speranza e sua scomparsa ecc. ecc.) ed anche una gradazione di disposizione ideativo-sentimentale che sorregge tutto ciò – quello che qui mi importa ribadire è appunto il fatto che la simpatia e l’usufruizione leopardiane del Metastasio convergono sul poeta del patetico, sul poeta delle vibrazioni e oscillazioni del cuore, da cui nasceva (entro la stessa attrazione leopardiana per la nitida, elegante chiarezza razionalistica e l’interna melodia verbale) la spinta piú vera della «simpatia» del Leopardi per Metastasio e il modo stesso della sua utilizzazione di parole, stilemi, ritmi del Metastasio: non importa dire entro quale diversa direzione, complessità di componenti culturali e poetiche, e con quale diversa pressione di grande pensiero e con quale diversa altezza dei risultati leopardiani.

Del resto, sul filo – qui cosí sottile e abbreviativo – dell’adiuvante stimolo rousseauiano e leopardiano, mi pare che, insieme, proprio dalla stessa rilettura di Metastasio vengano elementi atti a confortare la centralità e la preminenza dell’elemento lucidamente, ma densamente patetico: certo da intendere in forme storiche e critiche e nella complessità di una poetica e di una poesia teatrale che implica tanti altri elementi intellettuali, ideologici, culturali e tecnici a sostegno dell’intera prospettiva creativa metastasiana, mentre certo agisce in essa una volontà piú apertamente tragico-eroica, ma di livello piú intenzionale e semmai, a mio avviso, piú funzionante proprio quando la virtú è piú convenientemente adeguata alle misure patetiche, e non si fa rigido eroismo tragico e piú trova alimento e giustificazione in una tensione affettiva, in un movimento appunto del «cuore»: per dirla ancora con Rousseau (e, in sostanza, con Leopardi), ma anche proprio con lo stesso Metastasio se valutiamo certe meditate definizioni del dovere del poeta e delle sue qualità fondamentali, estraibili dall’importante Commento all’Arte poetica di Orazio: una sulla differenza, proprio riguardo al tema delle alterazioni del cuore, fra prosa e poesia («La ragione e la prosa che la riflette e piú direttamente la esprime, debbono illuminare con placida, anche se difficile, tranquillità tutte le alterazioni del cuore, ma non accrescerle, come invece possono e debbono fare i poeti»), l’altra sulle qualità naturali necessarie al poeta, fra le quali (come una naturale acuta sensibilità all’armonia, estro, entusiasmo o furor poetico a stimolo di particolari operazioni della mente, bisognose però di impeto e di emotività) centrale risulta «una naturale docilità, o sia attività del cuore ad investirsi facilmente delle varie umane passioni che si vogliono in altri eccitare: effetto che non può conseguirsi da chi non le sente prima in se stesso».

Con ciò non si intende ridurre la complessa gamma personale, culturale, storica della Weltanschauung, dell’ideologia e insomma della poetica, nel senso piú complesso di questa nozione, e delle stesse realizzazioni metastasiane, ma è proprio tenendo conto di tutto ciò in un’articolazione e in un radicamento storico e storico-letterario (nella storia ideologica e sin politica, nella storia del genere melodrammatico e nella stessa complessa prospettiva del dramma per musica come lo concepiva il Metastasio) che quelle andrebbero nuovamente approfondite e delineate (per rafforzare con la storia, in tutte le sue forme adatte, l’interpretazione del Metastasio, ma non per sommergere e perder nella storia l’autentica sua forza poetica). Si intende invece ribadire (come potrebbe esser fatto davvero solo in una nuova ricostruzione della sua poetica e poesia) che centrale forza propulsiva della sua opera melodrammatica risulta quella del poeta delle oscillazioni, alterazioni, vibrazioni, sospensioni, modificazioni, del «cuore» (nel senso dato dallo stesso Metastasio a quella parola, resa banale da eccessi basso romantici), «cuore» che, pur nella essenziale chiarezza distintiva della «ragione» ed entro la fondamentale prospettiva della coscienza metastasiana di «fingere sogni e favole» (in cui il poeta-uomo viene coinvolto, perché favola e sogno è la stessa vita, e la verità appartiene ad un mondo trascendente), offre alla misura e chiarezza del suo lucido razionalismo (e come alimento, appunto, delle sue «favole», dei suoi «sogni») l’essenziale materia dei sentimenti, degli affetti, della sottile e ondulata vera vicenda dei suoi melodrammi: la quale appunto è vicenda soprattutto dei movimenti e sentimenti del cuore nel suo confronto con la ragione, con la realtà, nella sua dialettica falso-vero, nel rapporto con le peripezie che li provocano e che per essi son fatte funzionare, motivando cosí centralmente il fondo stesso del linguaggio metastasiano limpido, chiaro ed eletto, ma anzitutto tenero, patetico, denso di sentimenti ed affetti, e il fondo stesso della sua interna musica – laddove essa è piú davvero e poeticamente convincente –, lo stesso fluire continuo e sottilmente graduato fra recitativo ed aria, e incarnando nel movimento del cuore la radice sensibile della stessa incisività, della sua pedagogia, dei suoi messaggi, e dunque del suo pensiero tutt’altro che inerte.

Né a caso e non solo, ma insieme e strettamente, per il suo strenuo esercizio artistico e teatrale e il suo lavoro assiduo sul linguaggio in dimensione e direzione teatrale, offerto alla musica sulla base di una propria interna musica e disposizione all’espansione della concertazione e del canto (cui soprattutto si aprono piú chiaramente le arie), la piú alta zona di risultati totali è, per tradizionale, ma sostanzialmente ben confermabile giudizio, la zona dei primi anni viennesi e fra questi l’eccezionale 1733 che vede la creazione dell’Olimpiade, del Demofoonte, dell’importantissimo sonetto Sogni e favole io fingo (essenziale momento di consapevolezza e di profondità significativamente raggiunte nella massima tensione totale del Metastasio qual è quello che appunto lega il sonetto direttamente alla creazione dell’Olimpiade e ne fa come la motivazione profonda del Demofoonte), nonché della canzonetta La libertà, cosí distinta entro un’espansione della ricchezza creativa del Metastasio e insieme collegata a quella grande fase della sua poesia melodrammatica.

Dicevo non a caso (e certo nello sviluppo completo delle forze costruttive metastasiane), perché è in questo periodo culminante di tutte le forze migliori del poeta teatrale che, in rapporto appunto al decisivo sonetto, la stessa aderenza alla dichiarazione essenziale, in esso espressa, concerne non solo la centrale dimensione esistenziale e la «funzione» di «sogni e favole», ma anche il coinvolgimento totale di quello che possiamo pur chiamare il «cuore» del poeta: coinvolgimento che è dichiarato «folle», come follia, sogno e favola è dichiarata la vita del poeta fino al raggiungimento della verità trascendente, ma che pure è realmente avvenuto durante la creazione poetica e proprio, rispetto all’Olimpiade, su precisi motivi della ricca vita del «cuore»: la separazione, l’addio di due teneri amici e, dunque, in un essenziale «luogo» dello sviluppo di sentimenti precipui nella sensibilità e nella poesia del Metastasio. Coinvolgimento del poeta che, a sua volta, entro la favola perfetta dell’Olimpiade, è capace di coinvolgere gli spettatori (e i lettori disposti ad una prefigurazione teatrale del testo) anzitutto proprio nello svolgimento continuo del fluire del patetico-elegiaco entro la limpida e misurata tensione di quel capolavoro. Al quale, forse con minore perfezione totale, ma con una accresciuta tensione patetico-drammatica fino al limite di un dramma che pare a un certo punto sfondare il riequilibrio terminale del lieto fine, segue (e dunque tanto piú in riferimento alla decisiva dichiarazione del grande sonetto e alle punte piú intense della sua descrizione della vita, fino al «delirando» che ritorna nei «deliri» del grande monologo di Timante sulla vita) il Demofoonte, l’opera che io avrei desiderato fosse rappresentata o teatralmente letta durante questo convegno (esecuzione teatrale che avrebbe motivato e sorretto una mia piú ampia interpretazione critica di quella grande opera).

Nel Demofoonte infatti il Metastasio fa una specie di prova suprema e sin sorprendente (rispetto alla piú consueta immagine della sua poesia melodrammatica) della forza del patetico, tesa (fra la trama con le sue moltiplicate peripezie e le intense curve della vicenda di sentimenti che esse sostengono) fin quasi ai limiti dell’appassionato (che pertiene piú chiaramente ad altri autori di altra tempra e di altra epoca) e finisce per investire lo stesso lieto fine, nella sua sigla conclusiva del coro, che non può non richiamare, sul tema piacere-dolore, una sorta di raccordo leopardiano («piacer figlio di affanno / gioia vana ch’è frutto del passato timor») e insomma con un succo finale tutt’altro che rasserenante e «lieto»:

Par maggiore ogni diletto

se in un’anima si spande

quand’oppressa è dal timor.

Qual piacer sarà perfetto,

se convien, per esser grande,

che cominci dal dolor?

Solo (ma con un riequilibrio piú esterno alla tensione dinamica dell’opera e trasferito nel diverso presente) la Licenza, rivolta all’imperatore Carlo VI, tutta sottilmente tramata in una elegantissima forma chiaroscurale, nel rapporto fra questo – il civilissimo padre di tutti «noi» (i suoi sudditi) – e il «barbaro» re trace, padre-non padre Demofoonte, par concludere in maniera piú apertamente «serena» sul tema (certo non solo cortigianamente doveroso, ma personalmente partecipato dal Metastasio) del trionfo della luce di Carlo VI e della sua epoca e l’ombra di una storia mitica barbarica e di un re barbaro: anche se nel melodramma in effetti quel re non è privo di connotazioni patetiche, umane e sin generose e di umane perplessità e in quella Tracia barbarica agiscono e «parlano» personaggi non solo significativi per problemi assai maturi sul rapporto re-sudditi, su leggi umane e divine, sul rapporto re-padre, paternità di natura e di libera volontaria elezione, ma intensamente ricchi di una piena vita del cuore anche se in modi variamente graduati e cosí con una organica complessità di linee che movimenta e arricchisce in maniera particolare questa eccellente opera metastasiana[1].

Quella ricca vita del cuore nei personaggi e nelle vicende sentimentali vibra fortemente sotto l’urto delle peripezie accresciute sullo stimolo delle peripezie di varie note opere presenti al Metastasio nella creazione del Demofoonte (dall’Edipo di Sofocle in là), ma soprattutto moltiplicate per costruire un diagramma di occasioni propizie a far scattare la poesia degli affetti: un diagramma cosí mosso, incalzante, nelle sue alternative di soluzione felice (e di gioia) e di maggiori avversità (e di dolore) e di gioie imperfette perché legate a troppo grandi dolori, secondo quanto ci ha detto il coro finale e secondo un modulo impostato (con immagini non certo insolite nei melodrammi e specie nelle arie metastasiane, ma qui rese essenziali per il particolare svolgimento cosí significativo del Demofoonte) nell’aria che completa il primo monologo di Timante (nella scena 4a dell’atto 1°) e che condensa il primo e secondo movimento di questo modulo e diagramma: gioia-dolore-gioia o speranza di gioia-maggior dolore. Timante è ritornato dalla guerra e ha sperato in una ripresa di vita coniugale felice, ma riceve presto la notizia della destinazione di Dircea, la sua sposa segreta, al sorteggio del sacrificio mitico, e quando crede di aver risolto con il padre-re la sorte della donna amata, il padre gli comunica che egli dovrà invece sposare la principessa Creusa:

Sperai vicino il lido,

credei calmato il vento,

ma trasportar mi sento

fra la tempesta ancor;

e da uno scoglio infido

mentre salvar mi voglio,

urto in un altro scoglio

del primo assai peggior.

Quel movimento culmina, entro una dinamica in crescendo, nel presunto incesto (cosí repentinamente rivelato) fra Timante e Dircea (la coppia centrale, legata da un lungo e profondo affetto coniugale), che tocca il massimo di forzatura della misura e della bienséance metastasiana. Anche perché non è solo causa di aperto sbigottito orrore in Timante (e di piú confuso e pensoso tormento in Dircea), ma in Timante è a un certo punto addirittura vissuto sí come delitto, colpa inaudita, ma anche come fatto indissolubilmente intrecciato con l’invincibile forza di un lungo amore, come dicono i versi memorabili (due di essi – «e sí dolci memorie? / e sí lungo costume?» – passarono dalla citazione nella Nouvelle Héloïse sin nel giovanile Foscolo di una lettera del ’96 e dunque nell’epoca del piú acceso rousseauismo foscoliano) che Timante rivolge al fratello Cherinto, proprio prima della rivelazione finale che risolve il dramma:

Son reo purtroppo; e se finor nol fui,

lo divengo vivendo. Io non mi posso

dimenticar Dircea. Sento ch’io l’amo;

so che non deggio. In cosí brevi istanti

come franger quel nodo,

che un vero amor, che un imeneo, che un figlio

strinser cosí? che le sventure istesse

resero piú tenace? e tanta fede?

e sí dolci memorie?

e sí lungo costume? Oh Dio! Cherinto,

lasciami per pietà! Lascia ch’io mora,

fin che sono innocente.

Ma già prima, nello stesso atto terzo, il movimento della vicenda e della reazione patetico-poetica dei personaggi si fa piú intenso e scatena due drammatici monologhi di Timante, il primo dei quali (mentre Timante è in prigione in attesa della morte comminatagli dal re suo presunto padre) è notoriamente celebre per la diagnosi pessimistica della vita che ben si colloca in questo melodramma cosí importante a rivelare i moti piú fondi dell’animus poetico-drammatico e della stessa piú complessa Weltanschauung espressa dal Metastasio.

Perché bramar la vita? e quale in lei

piacer si trova? Ogni fortuna è pena;

è miseria ogni età. Tremiam, fanciulli,

d’un guardo al minacciar; siam giuoco, adulti,

di Fortuna e di Amor: gemiam, canuti,

sotto il peso degli anni. Or ne tormenta

la brama d’ottener; or ne trafigge

di perdere il timor. Eterna guerra

hanno i rei con se stessi; i giusti l’hanno

con l’invidia e la frode. Ombre, deliri,

sogni, follie son nostre cure, e quando

il vergognoso errore

a scoprir s’incomincia, allor si muore.

Ah! si mora una volta!

Cosí, nel rimando dei «deliri», dei «sogni», delle «follie» e del «vergognoso errore» a particolari parole e al senso generale dello «inganno» e «disinganno» esistenziale del sonetto Sogni e favole io fingo (e dunque al carattere che il Demofoonte ha quasi di rilancio melodrammatico-drammatico di quella meditazione metastasiana fondamentale proprio di pochissimo precedente al Demofoonte), si può ancora meglio constatare, anche attraverso gli stessi versi e il tono del monologo ora letto, come nel Demofoonte il Metastasio raccolga, condensi e tenda al massimo slancio a lui consentito quella «poesia del cuore» (per ritornare a Rousseau da cui ho avviato questo brevissimo discorso) di cui in questo melodramma vien rivelato come il fondo piú intenso e complesso e meglio ci avverte delle risorse autentiche del «patetico» metastasiano. Il quale può dunque avere anche questo maggiore spessore, contribuendo cosí (in chiaro e scontato rapporto con la complessa realtà dell’opera e della poetica teatrale metastasiana, delle sue implicazioni culturali e storiche, di un pensiero tutt’altro che inerte) ad una giusta ed elevata valutazione del Metastasio: una voce di vero poeta che si inserisce pur degnamente fra le voci di ben diversi e piú grandi poeti, una voce che ci persuade della verità e densità poetica dei suoi «sogni e favole» e si offre intera e sicura al nostro piacere (o meglio, interesse) estetico, ma anche, organicamente insieme, alla stessa nostra, pur cosí diversa, vita di sentimenti e di affetti.


1 Si consideri a questo proposito soprattutto la creazione, nel Demofoonte, di una linea di contrappunto delicatissimo che, alla linea centrale e piú matura, pensosa, drammatica dei due sposi Timante e Dircea, intreccia quella della coppia piú giovanile, fresca ed ingenua di Cherinto e Creusa, e crea, in generale e particolarmente, con gradazioni cosí sottili ed efficaci, nel personaggio e nella voce di Creusa, un vero arricchimento, tutt’altro che discordante ed estraneo, del melodramma: dico anzitutto di Creusa con la sua figura piú agile ed estrosa (quasi minore e ridotta ripresa della figura di Didone, ma piú elegante, raffinata e piena di maturità) con la sua tonalità trascorrente da una giovanile e femminile malizia, alterigia principesca, moti istintivi di sdegno, ad una disponibilità a partecipare al dramma che a un certo punto la coinvolge e a cui reagisce con moti di stupefazione, di incredulità, ma anche di pietà, di generoso e fattivo altruismo (si pensi almeno al suo incontro con Dircea condotta a morte e preoccupata solo della sorte dell’uomo amato e ai modi del suo stupore, della sua commozione e della sua volontà di rimediare ad una situazione in parte prima da lei stessa voluta nel suo sdegno di principessa rifiutata come sposa da Timante), per portare, nel finale rasserenamento e scioglimento della vicenda, la nota forse piú schiettamente «lieta» nei modi teneri-maliziosi con cui assicura a Cherinto, ormai suo destinato sposo, il proprio amore.